mercoledì 5 febbraio 2014

drops of Jupiter

Aprite gli occhi. E provate a guardare in modo diverso. Oltre, semplicemente inclinando la testa e guardare cosa c’è tra il punto luminoso sopra di voi ed il soffitto scuro che qui chiamano cielo. Io lo sto facendo da un po’ di sere. E devo ammettere che lo spettacolo merita.  Sembra di vedere tanti fili, come quelli plastificati che tengono le lucine bianche che si usano come decorazione, o che si mettono intorno all’albero di Natale.

Le stelle pendono dal soffitto scuro.

Il soffitto scuro sembra cartapesta, come quella che si usa per fare il presepe. A casa ne abbiamo sempre abusato, perché facevamo il presepe sul termosifone ed il nostro gatto Pallina (che non si è mai riconosciuto in quel nome perché l’abbiamo sempre chiamato “micio” fino alla fine dei suoi giorni), amava sdraiarsi sul laghetto di carta stagnola, per cui finiva che il presepe stava lì fino a febbraio inoltrato.

Le stelle pendono, il cielo è fatto di cartapesta scura, i contorni sono netti. Di tutto quello che c’è sotto. La pianta di anacardi davanti alla mia camera, il tetto di makuti, la testa del ragazzo che guida il bajaji. Sembra di stare in un telefilm americano girato solo in interni, quando si capisce benissimo che le scene esterne sono finte, tu nella macchina e tutto lo scenario intorno si ripete sempre uguale.

Tutto ha una sua collocazione, uno spazio fisico e ben definito.

Ben definito come i contorni di questo K. Contorni tracciati sull’Africa di alluminio dagli Inglesi. E per questo, il Paese non ha storia. Non ha arte. Aspetta che qualcuno si faccia sotto,  mentre attende l’umidità che sta per arrivare, e le mucche scarne sono legate con una corda ad arbusti altrettanto scarni, poco gustosi ed impolverati. Essendo un Paese giovane, deve farsi le ossa. Come un adolescente, segue gli ormoni, e poco la ragione.

Come tutti gli adolescenti, questo K. è aggressivo. Aggressivo e ciarliero, desideroso di esplorare, di parlare con i bianchi che qui arrivano , fino a fare sanguinare le orecchie, per migliorare l’italiano, rimediare un invito per una birra per la sera, o un numero di telefono da mostrare per fare vedere che anche io ho un europeo che mi ha fatto amico, e si interessa a me.

 Aggressivo come un animale in caccia. Fiuta la preda, non importa che sia la più bella, ne fiuta una, ma che potrebbe benissimo essere quella accanto, la fiuta e la punta. Come fanno i bianchi esperti con le ragazzine, aggressive e truccate nei loro pesanti abiti di foggia europea di quart’ordine. Come fanno ancor più le donne mature, mano nella mano con giovani forti e robusti, la futura forza lavoro di questo K., che al contrario sprecano il loro fiato ripetendo meccanicamente frasi sentite chissà dove che pompano l’autostima a mille.

La natura è aggressiva, rigogliosa, imponente. Giganteschi baobab, intere distese di verde, ossigeno. Dicono che anche nella foresta di Arabuko, gli elefanti siano aggressivi. Piccoli, ma agguerriti. E per proteggere loro e tutti i loro colleghi, che siano a due o 4 zampe, servono soldi, finanziamenti. Cosa si sono inventati?

Vendono le pupae, mi spiegano al Kipepeo, piccolo museo delle farfalle a Gede, a sinistra rispetto all’ingresso delle Rovine.

ingresso Kipepeo


Le pupae rappresentano il secondo stadio della farfalla, vengono prese nella foresta, controllate, impacchettate vive, e spedite in Inghilterra, dove si spera che vive, possano avere un’altra alternativa, possano guardare oltre, invece di farsi ammirare da uno sparuto gruppo di turisti nelle loro teche.

pupae appese al filo

Guardare oltre, paranoie non ce n’è  a mangiare con le mani, mi hanno fatto capire i miei due boys, li ho invitati al Kalahari perché non sempre possono dire di andare a letto con lo stomaco pieno, quindi fare poco gli schizzinosi, farsi spruzzare un po’ di liquido blu, e sentire l’acqua tiepida sulle mani, lavarsele in una bacinella di plastica, altro che salviette al limone. E mangiare il pollo, la michicha fritta (leggi spinaci), che sanno di poco, ma hanno un sottile retrogusto di qualcosa, l’insalata di cipolle e pomodoro, che io rifiuto, ma su cui spruzzano ridendo un specie di tabasco. Per finire, mi insegnano a masticare l’amarunghi, radice corta e sottile amara da far paura, che sgranocchiano con gusto mentre guardano la partita, avvolta in un foglio di giornale. Quando protesto, e strizzo gli occhi come un bambino perché amara, allora mi lanciano un chewing-gum, insegnandomi a tirare giù la saliva, e sputare i pezzetti di radice che mi danno fastidio.

Da fuori guardavo la scena, io loro, le radici sul tavolo, le loro camicie pulite, i loro denti che insieme ai miei splendevano nella notte, l’unica cosa che ci accomunava, ieri sera, in quel tavolo traballante che sarebbe stato male assortito agli occhi dei più, una bianca con la pochette di juta e due kenioti che le facevano vedere cosa ordinare dal menù scritto in swahili.

Ed in quel momento sembrava non ci fosse oltre, ed invece ho realizzato che non mi aspettavo niente da una serata così, invece insieme all’amarunghi, ho capito che in realtà sto rosicchiando un po’ di vita, un po’ di stelle, un po’ di K.



E.
capelli arruffati, un pò di smorfie, ma spirito alto

Nessun commento:

Posta un commento