domenica 23 febbraio 2014

farmi la barba o uccidere / che differenza c'è?

E così anche il rullo compressore che è stato il Valentine’s Day è passato. Annunciato da striscioni sparsi in tutta Watamu e dintorni, attaccati da un’estremità all’altra ai pali della luce dai fili attorcigliati. Striscioni che promettevano una serata scandita dal sottofondo del Bango, musica live strimpellata in locali più o meno malfamati, ideale per le coppiette nuove o stagionate, pronte per un lento insieme.

Alle dieci del mattino avevo già ricevuto più auguri – tra telefono ed sms- di quanti non ne abbia ricevuti in 31 anni di vita. A parte gli insulti al mio tuc tuccaro che mi ha svegliata alle sette meno dieci per dirmi che mi avrebbe fatto un regalo (che ho scoperto la sera essere un mazzo di rose rosse, che tra l’altro a ben pensarci è come se lo fossi comprato da sola, con tutti gli scellini che gli lascio settimanalmente), grosse risate per le filastrocche sdolcinate che mi sono arrivate via messaggio, scritte in uno slang, misto fra swahili ed inglese,  la cui destinataria ero io, seguita a ruota da chissà quante altre, mzungu o keniote che fossero.

L’importante è non prendere niente sul serio, in questo K. Dal punto di vista umano, intendo. Non fare grossi investimenti, perché si resta con un palmo di naso. Ti può venire detto tutto, ed il contrario di tutto. Puoi diventare l’oggetto di una passione sfrenata dopo il primo sguardo, ma al secondo potresti non sembrare così appetitosa. Andare avanti per la propria strada, a volte con i paraocchi come i cavalli, a volte con i tappi nelle orecchie, come i marinai attirati dal canto delle sirene. Tracciare la via, vedere che succede.

L’importante è prendere invece sul serio quello che si vede. Quello è lì. Non è uno specchietto per le allodole, non è un’immagine riflessa nello specchio. E’ un incastro di puzzle, ogni pezzo che trovo in giro costituisce un tassello mancante.

Mi mancava la foresta di Arabuko Sokoke, l’ultima e la più grossa foresta pluviale del K.

foresta di Arabuko (sulla sin.)
Ho pensato bene di andarci in quad, anche se, memore dell’ultima volta che ci sono salita,(anno del Signore  2009, Marsa Alam. La guida mi guardò con un disprezzo tale che mi disse “Ringrazia che sei la tour leader, altrimenti ti avrei già lasciata qui!”. Io ero così mortificata, avevo fatto rallentare tutta la fila, mi sfrecciavano davanti anche le donne incinte e gli anziani, e per riuscire ad uscirne fuori convinsi l’altra guida a guidare al posto mio in modo da poter sedere dietro. Mi rivelò di essere stata operata al cuore, per cui ogni buca e sasso credevo gli venisse un infarto. Ho giurato che non ci avrei provato mai più), avevo posto la condizione di non guidare.

Il centauro di Watamu
Per arrivare alla foresta abbiamo attraversato una serie di villaggi, più o meno dotati quasi tutti di pozzo, di scuola, anche se la presenza di una maestra ho notato essere una conditio sine qua non, perché come i bambini ci hanno visto si sono lanciati come schegge impazzite in strada, quelli rimasti in aula allungavano le mani come dalle sbarre della prigione, e nessuna adulto è venuto a reclamare un po’ di ordine. I bambini hanno tutti la divisa, delle ciabattone enorme per i loro piedini, quasi tutti il cranio rasato (vedi il caldo e la maggior igiene) e quaderni tra le mani.

La maggior parte dei villaggi non è in prossimità del sentiero principale, nascosti come sono in mezzo all’erba cotta dal sole, agganciati alla civiltà da una strada sterrata che percorrono a perdifiato, non appena passano i mzungu che magari hanno comprato un chilo di farina e me la vogliono regalare.
La foresta di Arabuko costeggia questi frammenti di vita, separata da un filo spinato che tiene lontani gli elefanti nani, cattivi ed aggressivi.  Popolata da molteplici serie di serpenti, tutti ugualmente schifosi e dal  famoso caracal, meglio conosciuto come il gatto rosso della foresta.

Attaccati agli alberi ci sono dei piccoli retini azzurri, con una piccola apertura sul fondo, su cui è appoggiato un tappo contenete del vino di cocco. Le farfalle sono attirate dalla dolcezza del vino e rimangono intrappolate nel retino, e vengono portate al Kipepeo, il famoso farfallario di Gede di cui ho parlato qualche post fa, usate per la riproduzione delle pupae, che vengono poi vendute Oltremanica.

tanica di vino di cocco (gialla) e retino per le farfalle (azzurro)

Tante, numerose le liane, che come mi dice la guida “sono rami che cresciono dagli alberi” . Lasciata la foresta di Arabuko, tocca a quella delle mangrovie, il Mida Creek, che da Mombasa percorre tutta la costa per poi sparire all’altezza di Watamu. Costellata da granchi violinisti e toccata dal paesaggio che cambia ogni volta che alta e bassa marea si incrociano, dà ogni volta la sensazione che si possa offrire uno scorcio diverso, anche se il paesaggio è sempre lo stesso.


granchio violinista


Come dire: invertendo l’ordine di due fattori, il risultato cambia.

Cambia la percezione delle cose, anche a seconda dell’umore con cui ci si approccia, come nella vita di tutti i giorni.

Cambiano le forme, la notte, mentre ero in bajaji, e tornavo da Malindi. Sembrava di essere su di un tappeto volante, mentre scorrevano perfette le sagome delle palme, come disegnate su di un cartone dipinto di nero, e sopra la luna, un pallone da rugby leggermente sgonfio.

E’ questo che mi voglio portare a casa quando sarà, questa sensazione, i miei ricordi.

Sostiene Pessoa che “la vita è ciò che facciamo di essa, i viaggi sono i viaggiatori”. Lo sostengo anche io.

veduta del Mida
Due settimane fa mi sono comprata un ciondolo con l’Africa, lo ammetto. E’ piccolo, in argento, smaltato del colore della giraffa. Ero al centro commerciale, l’ho visto in una vetrina. Colpo di fulmine. Ci ho pensato tutta la settimana, poi ho deciso “ ’Fanculo, mi piace, me lo regalo, anche se ce l’hanno tutti.”

Il ciondolo con l’Africa è come il mal D’Africa appunto, ce l’hanno tutti. E’ come avere la testa sul collo, fisicamente, anche se poi saperla usare è un altro paio di maniche. Ma la Mia Africa sarà come questo ciondolo, come la corsa della giraffa, un po’ sgraziata, con le gambe lunghe e nodose, con il suo girarsi lento a sentire i rumori, mentre muove le impalpabili orecchie.

Sarà,  anzi è una corsa su di una lunga distanza, per cercare di stare al passo, e non perdere il ritmo, è come un cubo di Rubik, quando pensi di aver capito il meccanismo, ed invece ti ritrovi con un puzzle di colori.

E’ come prendere in mano la foglia croccante dell’anacardo, sentire il Kaskasi sulla faccia,  farsi prendere un po’ dalla malinconia nel pensare a casa, e’ vero, perché inutile fare gli spacconi, le persone mancano, ma i silenzi aiutano, ci si fruga dentro, si scopre sempre qualcosa di sé, come quel vestito che hai comprato non sai dove, ma che magicamente spunta nell’armadio.

La mia strada va avanti, in continuo movimento, piena zeppa di punti interrogativi, certo. Ma io, di mettermi in discussione, mi sa tanto che mica mi sono stancata, eh?

E.







martedì 11 febbraio 2014

if we ever meet again

“Il nostro spirito è veramente la nostra ultima risorsa. Quando sembrava che tutto fosse perduto, quando rimasi sola nel vento accanto alle mie tombe, sentii che quello era il momento per rialzare la testa e guardare di nuovo l’Africa.”
I dreamed of Africa, “Venuti dal cielo”, K. Gallmann

Due sono gli insegnamenti che per sempre mi ricorderanno i miei genitori.

1 Sii sempre te stessa,e non avere mai paura di dire quello che pensi (frase preferita da mia madre, insieme a il sangue non è acqua).

2 Non ti voltare mai indietro (incitamento di mio padre quando facevo la corsa campestre alle elementari, che però può benissimo essere applicato alla vita di tutti i giorni).

Kuki Gallmann, gemelli come me, nata un giorno e parecchi anni prima, ha vissuto fino in fondo questi insegnamenti appuntati come spilli, arrotolando la corda della vita al suo porto sicuro, l’Africa, il Kenya in particolare, che le ha dato tutto, e tutto le ha tolto.

E nella settimana di San Valentino, annunciato qui in Kenya da striscioni per le strade, e considerato una vera e propria festa, la sua testimonianza  di amore per la vita e per il Kenya regalano una luce diversa a questo giorno, la voce di un insider.

Kuki nasce a Treviso, da padre medico e soldato, sfuggito alla morte,e da una madre, che diventerà in seguito una famosa storica dell’arte. Come direbbe la mia, di madre, il sangue non è acqua.

Circondata da affetto, cultura, senso del rispetto e della famiglia, Kuki si innamora a vent’anni. Lui è Mario, giovane della Venezia bene. Si conoscono, si amano, con determinazione si sposano, la famiglia di lei non li ostacola, convinti come sono della fiducia che ripongono nella loro figlia.

Nasce Emanuele, ma il matrimonio finisce.

Da un fallimento rinasce Kuki. Nonostante di lì a poco un incidente in macchina con degli amici, tra cui il futuro amore della sua nuova vita, la faccia restare quasi zoppa. Il Suo Futuro Amore perde la moglie, rimanendo giovane, bello e vedovo con due figlie.

Lei è giovane, separata, zoppa, curiosa.

Lui le tiene compagnia durante il suo calvario di vai e vieni dagli ospedali, Lei si interessa all’Africa di cui lui parla e di cui lei ha sempre sentito parlare da suo padre, che molto ha vissuto tra i Tuareg nel nord del Continente nero.

Lui se ne frega della sua gamba più corta, perché, come ho letto in una intervista, “ci si innamora di chi ci si innamora.” Punto.

E così, dopo un paio di vacanze, in cui a decidere il rientro in Italia sono le scadenze dell’operazione che le permetterà di camminare di nuovo, Kuki e Paolo impacchettano sogni, desideri, figli (tre in totale, due di lui e uno di lei) e si trasferiscono. Nuova vita, nuove sfide, nuove corse con la gamba aggiustata, un Kenya da assaggiare.

Comprano la proprietà di Ol Ari Nyiro, tenuta diventata oggi simbolo stesso della sua vita spesa per il Kenya, che all’epoca ospitava distese di verde, rinoceronti, elefanti, laghi, montagne.  Trecentosessantagradi di Africa, insomma, e che fa da sfondo allo scorrere del tempo che passa, nell’indolenza dei colori africani, quando il sole crolla, ed il crepuscolo è un foglio accartocciato.

Paolo ed Emanuele, Kenya
La vita spesso non conosce happy ending, questo lo sappiamo. Le cose brutte capitano anche e soprattutto alle persone buone.

Paolo muore in un incidente stradale a Nairobi, mentre sta andando a comprare una culla per la figlia che aspettano, lui e Kuki.

Muore, lei lo sente. Ha sempre avuto una specie di sentore per le disgrazie, Kuki.

Muore, e muore un pezzo di lei. Anno 1980, Kuki non ha ancora 40 anni.  Il nodo in gola, il cuore che si spezza, lo senti fare crac, come una trave di legno che cade dal soffitto.

Paolo era la vita, la porta su cui lei si era affacciata, la promessa di una nuova vita, il profumo del tamarindo che si spande per l’isola di Gorè in Senegal. Paolo era l’Amore, senza tanti giri di parole, che arriva quando non te lo aspetti, che ti fiuta come una preda, e ti porta via.

Paolo viene sepolto nella terra, come si usa qui, vengono sparati colpi di fucile, passato da cacciatore, e piantata sulla tomba un’acacia gialla.

Raramente piango per un libro, qui mi sono ritrovata a piangere come una pazza agli orari più impensati, perché traspare il dolore puro, una donna che in Africa c’è venuta per un motivo, ed ora che il motivo se n’è andato si ritrova incinta, vedova, con mille acri sotto i piedi, sopra un cielo di stelle, una tenuta da amministrare, ed un bambino che di due padri che aveva una volta, ora non ne ha nemmeno uno.

La paura di non farcela si vede, il dolore della morte si sente, esce dal libro e ti acchiappa per la gola e ti butta dentro, in mezzo ai pokot dai lunghi capelli, in mezzo alla muta di cani che ti tengono compagnia, Kuki.

Nasce la piccola Sveva, fotocopia del padre. Bella bionda solare. Kuki un po’ invecchia, ma tira avanti. Non ti voltare indietro.

Chi rimarrà per sempre fermo sarà Emanuele. Emanuele è destinato a restare giovane. Emanuele ha 17 anni, carattere sereno, passione pericolosa, per i serpenti. Non a caso, e Kuki se lo ricorda, il primo essere in cui Emanuele si è imbattuto, in terra d’Africa, è un serpente.

Emanuele li studia, li cerca, li cattura, ne ha uno personale, il suo primo, dal nome Kaa, che gli compra proprio sua madre, perché pensa che la passione non vada ostacolata.

Emanuele fa l’uomo di casa, ama le ragazze, ama gli amici, ma ama i suoi serpenti. Soprattutto i suoi serpenti. Come ama sua madre, che non vuole fare preoccupare, ed a cui non racconta di essere stato morso altre volte, da questi essere striscianti.

Fino a quel mattino. Anno 1983. Emanuele ha i pantaloni kaki, le pinze per i serpenti, e sta andando a togliere il veleno da una vipera soffiante. La madre lo vede, solito presentimento. Mentre cerca di scacciare i brutti pensieri con una bella doccia, lo sente. Grida, urla, torna in cucina, e vede il figlio esangue.

A nulla vale la corsa disperata a cercare soccorso. Come tutte le cose belle, anche Emanuele ha una fine. La sua fine, per colpa dell’essere che più amava. Beffa del destino.

Il funerale di Ema è tuffarsi di pancia nell’acqua, anche se sai che fa male. Ma vuoi vedere quanto farà male. E’ graffiarsi il braccio con la foglia puntuta di un’acacia. Lo sai che fa male, ma vuoi vedere quanto. Il funerale di un figlio è una cosa contro natura, e fa schifo.

Inutile dire che pensi che la madre farà un bel falò di tutti quei serpenti. Inutile dire che ho pensato “ma che passatempo è, dategli una pistola e facciamo prima”. Poi ti trovi di fronte l’amore di una madre, che è la cosa più grande del mondo. Le madri perdonano, sostengono, asciugano le lacrime. Incoraggiano. Quello che hanno fatto i suoi con lei, nonostante sapessero che il primo matrimonio sarebbe finito. Quello che lei ha fatto con il figlio, nonostante il presagio della sua breve meteora l’abbia sempre accompagnata. E lei, per onorare la memoria del figlio, e non farsi divorare dal dolore, libera tutti i serpenti il giorno dopo la sua morte.

Nell’antichità gli dei punivano i gesti contro natura. La natura è Dio, e se tu lo sfidi, questo Dio, come funziona? Sei stato ubris (tracotante, peccatore), per cui ora aspettati di tutto.

Ma se è il mio Dio, o il tuo, a scegliere che la natura veda contro sé stessa, come funziona? E’ lui il superbo, non io. Non ti voltare mai indietro, anche se vorresti.

Dopo pagine e pagine di dolore, dopo che viene piantata un’altra piccola acacia gialla sulla tomba del figlio, che riposa accanto a quella del marito, dopo che tutti le dicono di tornare in Italia, Kuki capisce.
Che quella è la sua casa, cosa che ha sempre saputo. Che ha dei doveri verso una bambina bionda che la guarda con occhi sgranati. Che se non vuole impazzire dal dolore, deve reagire. E reagisce come può fare un essere umano, dedicandosi a che la memoria delle persone che ci sono state strappate resti per sempre, e lasci un segno tangibile, oltre le orme sulla terra battuta.

Nasce così, ad un anno di distanza da tutto quel dolore la Gallmann Memorial Foundation, organizzazione che si occupa di promuovere progetti educativi per salvaguardare e tutelare l’ambiente. La tenuta di Al Ori Nyiro diventa sempre più spesso rifugio di elefanti e rinoceronti terrorizzati, vittime della follia del bracconaggio, la domanda di avorio cresce costantemente, ed il Kenya scopre di essere anch’esso un paese da bere, che vende i suoi figli in cambio di pochi soldi, e scarsa gratitudine. Uno fra i compiti della fondazione, è quello di proteggere i rinoceronti neri, all’epoca della scrittura del libro circa 46 esemplari, la popolazione più numerosa conosciuta in tutta l’Africa orientale al di fuori dei parchi nazionali.


Kuki è testimone di un episodio senza precedenti, nella storia del Paese, un segno di coerenza, deciso dal Presidente Moi e dal suo amico Richard, presidente del Kenya Wildlife Department, istituzione parastatale che si occupa della protezione della fauna selvatica del Paese. Un rogo di circa dodici tonnellate di avorio (valore di circa 3 milioni di dollari) per dimostrare che il Paese aveva scelto da che parte stare. Dalla parte del Kenya e degli animali. E' il 18 luglio 1989.

Il simbolo della fondazione, neanche a dirlo, sono le due acacie gialle, che ora crescono alte ed intrecciate una nei rami dell’altra, e svettano sulle tombe di Ema e Paolo. Gli amori della sua vita.

A ricordarci che ci si innamora di chi ci si innamora.

Che l’amore non muore mai.

Che spesso camminiamo fianco a fianco, ma non ci rendiamo conto del privilegio finché non rimaniamo soli nel viaggio.

Che accumuliamo ricordi, come vecchi abiti usati, istantanee di una vita, anche se sfocate.

Che nonostante tutto, ci diciamo addio molte volte, ma non pensiamo che possa essere quella definitiva.

Che l’amore e la morte sono molto più vicini di quello che si crede. Sono due punti fermi nella vita, l’inizio e la fine di tutto. L’inizio e la fine del viaggio. Accadono, e basta.

I passi che restano, gli incroci lungo la strada, l’album da colorare, quello è tutto per noi.

Maisha Marefu, lunga vita a chi mi dedica un po’ del suo tempo. E a Daniela, che mi sta insegnando a spingere il mio orizzonte un po’ più in là, e che mi regala il suo tesoro più grande, le sue emozioni.


E.

mercoledì 5 febbraio 2014

drops of Jupiter

Aprite gli occhi. E provate a guardare in modo diverso. Oltre, semplicemente inclinando la testa e guardare cosa c’è tra il punto luminoso sopra di voi ed il soffitto scuro che qui chiamano cielo. Io lo sto facendo da un po’ di sere. E devo ammettere che lo spettacolo merita.  Sembra di vedere tanti fili, come quelli plastificati che tengono le lucine bianche che si usano come decorazione, o che si mettono intorno all’albero di Natale.

Le stelle pendono dal soffitto scuro.

Il soffitto scuro sembra cartapesta, come quella che si usa per fare il presepe. A casa ne abbiamo sempre abusato, perché facevamo il presepe sul termosifone ed il nostro gatto Pallina (che non si è mai riconosciuto in quel nome perché l’abbiamo sempre chiamato “micio” fino alla fine dei suoi giorni), amava sdraiarsi sul laghetto di carta stagnola, per cui finiva che il presepe stava lì fino a febbraio inoltrato.

Le stelle pendono, il cielo è fatto di cartapesta scura, i contorni sono netti. Di tutto quello che c’è sotto. La pianta di anacardi davanti alla mia camera, il tetto di makuti, la testa del ragazzo che guida il bajaji. Sembra di stare in un telefilm americano girato solo in interni, quando si capisce benissimo che le scene esterne sono finte, tu nella macchina e tutto lo scenario intorno si ripete sempre uguale.

Tutto ha una sua collocazione, uno spazio fisico e ben definito.

Ben definito come i contorni di questo K. Contorni tracciati sull’Africa di alluminio dagli Inglesi. E per questo, il Paese non ha storia. Non ha arte. Aspetta che qualcuno si faccia sotto,  mentre attende l’umidità che sta per arrivare, e le mucche scarne sono legate con una corda ad arbusti altrettanto scarni, poco gustosi ed impolverati. Essendo un Paese giovane, deve farsi le ossa. Come un adolescente, segue gli ormoni, e poco la ragione.

Come tutti gli adolescenti, questo K. è aggressivo. Aggressivo e ciarliero, desideroso di esplorare, di parlare con i bianchi che qui arrivano , fino a fare sanguinare le orecchie, per migliorare l’italiano, rimediare un invito per una birra per la sera, o un numero di telefono da mostrare per fare vedere che anche io ho un europeo che mi ha fatto amico, e si interessa a me.

 Aggressivo come un animale in caccia. Fiuta la preda, non importa che sia la più bella, ne fiuta una, ma che potrebbe benissimo essere quella accanto, la fiuta e la punta. Come fanno i bianchi esperti con le ragazzine, aggressive e truccate nei loro pesanti abiti di foggia europea di quart’ordine. Come fanno ancor più le donne mature, mano nella mano con giovani forti e robusti, la futura forza lavoro di questo K., che al contrario sprecano il loro fiato ripetendo meccanicamente frasi sentite chissà dove che pompano l’autostima a mille.

La natura è aggressiva, rigogliosa, imponente. Giganteschi baobab, intere distese di verde, ossigeno. Dicono che anche nella foresta di Arabuko, gli elefanti siano aggressivi. Piccoli, ma agguerriti. E per proteggere loro e tutti i loro colleghi, che siano a due o 4 zampe, servono soldi, finanziamenti. Cosa si sono inventati?

Vendono le pupae, mi spiegano al Kipepeo, piccolo museo delle farfalle a Gede, a sinistra rispetto all’ingresso delle Rovine.

ingresso Kipepeo


Le pupae rappresentano il secondo stadio della farfalla, vengono prese nella foresta, controllate, impacchettate vive, e spedite in Inghilterra, dove si spera che vive, possano avere un’altra alternativa, possano guardare oltre, invece di farsi ammirare da uno sparuto gruppo di turisti nelle loro teche.

pupae appese al filo

Guardare oltre, paranoie non ce n’è  a mangiare con le mani, mi hanno fatto capire i miei due boys, li ho invitati al Kalahari perché non sempre possono dire di andare a letto con lo stomaco pieno, quindi fare poco gli schizzinosi, farsi spruzzare un po’ di liquido blu, e sentire l’acqua tiepida sulle mani, lavarsele in una bacinella di plastica, altro che salviette al limone. E mangiare il pollo, la michicha fritta (leggi spinaci), che sanno di poco, ma hanno un sottile retrogusto di qualcosa, l’insalata di cipolle e pomodoro, che io rifiuto, ma su cui spruzzano ridendo un specie di tabasco. Per finire, mi insegnano a masticare l’amarunghi, radice corta e sottile amara da far paura, che sgranocchiano con gusto mentre guardano la partita, avvolta in un foglio di giornale. Quando protesto, e strizzo gli occhi come un bambino perché amara, allora mi lanciano un chewing-gum, insegnandomi a tirare giù la saliva, e sputare i pezzetti di radice che mi danno fastidio.

Da fuori guardavo la scena, io loro, le radici sul tavolo, le loro camicie pulite, i loro denti che insieme ai miei splendevano nella notte, l’unica cosa che ci accomunava, ieri sera, in quel tavolo traballante che sarebbe stato male assortito agli occhi dei più, una bianca con la pochette di juta e due kenioti che le facevano vedere cosa ordinare dal menù scritto in swahili.

Ed in quel momento sembrava non ci fosse oltre, ed invece ho realizzato che non mi aspettavo niente da una serata così, invece insieme all’amarunghi, ho capito che in realtà sto rosicchiando un po’ di vita, un po’ di stelle, un po’ di K.



E.
capelli arruffati, un pò di smorfie, ma spirito alto