lunedì 27 gennaio 2014

forse capiterà/ che ti si chiuderanno gli occhi, ancora/ o soltanto sarà/ una parentesi di una mezz'ora

“Da tempo non mi vedevo nuda, solo adesso mi accorgo che ho le gambe magrissime. Dopo essermi lavata mi sento rinata, mi avvolgo in un kanga e mi occupo dei vestiti. E’ difficile togliere lo sporco con acqua fredda, ma usando Omo in quantità in qualche modo ci riesco. Lketinga mi dà una mano, lavandomi gonne, t-shirt, e persino la biancheria intima. Anche questa  è una dimostrazione d’amore, nessun altro masai farebbe mai una cosa del genere. E’ bellissimo essere di nuovo soli. Appendiamo i vestiti bagnati sui cespugli e li appoggiamo sulle rocce calde e ci sediamo al sole, io avvolta nel kanga e Lketinga nudo.  Dopo un po’ tira fuori il suo specchietto e con un bastoncino di legno inizia a dipingersi il viso di ocra. Le sue lunghe dita eleganti sono così abili che per me osservarlo è una gioia. Lui mi guarda e ride “Why  you always look at me, Corinne?
Beautiful, it’s very nice.” Spiego. Ma Lketing scuote la testa dicendo che non si devono dire cose del genere, porta male."

C. Hofmann, La Masai Bianca, ed. Bur


copertina del libro



Questa è la storia di una passione. Fra Corinne e Lketinga. Lei giovane svizzera dai fini capelli biondi, fidanzata con Marco, svizzero anche lui, e con lui di passaggio in un Kenya di metà anni Ottanta, ancora tutto da scoprire. L’altro è Lketinga, fiero guerriero samburu, della tribù dei masai, che si guadagna da vivere esibendosi per i turisti, masticando miraa,  di passaggio su questa terra calpestata con i suoi sandali ricavati con lo scarto del pneumatico, e di passaggio, per caso, su quel ferryboat dove Lei è con il Lui svizzero.  Entrambi di passaggio. Lei decide di non essere di passaggio nella vita dell’Altro, spariglia le carte, e scambia il verde brillante della Sua svizzera con il verde assetato della Savana più nera, del bush
scena del film


Diventa la moglie di un guerriero samburu, ne osserva i costumi, ci prova a farli suoi, vive per anni in una manyatta (se qualcuno non si ricordasse, capanna di fango e legno di cocco), contrae la malaria diverse volte,  l’epatite, mette al mondo una figlia, sopporta la gelosia dell'Altro che nel frattempo è diventato Lui (arriva persino a dubitare di essere il padre della piccola Napirai) per poi arrendersi di fronte a quel passaggio che non è mai stato completato, ma rimasto un ponte in sospeso, ed abbandona tutto per non abbandonare sé stessa, in un disperato tentativo di salvare tutti e tre, satelliti ormai distanti, Lui resta, Lei e la piccola ritornano in Svizzera. Le donne in genere capiscono quando è il momento di togliere il disturbo.

Il libro campeggiava sugli scaffali di Nakumatt, famoso centro commerciale di Malindi. Inutile negare che la trama mi ha subito colpita. Tutte le persone, le donne, a cui ne ho fatto cenno, lo avevano letto. Mancavo solo io. 

Il sottotitolo del libro è "Storia di una passione africana". 

E se la passione dicono si esaurisca in un paio di anni, forse tre, questa storia li rispetta in pieno. Perché la sottile Corinne resta tre anni circa accovacciata nel bush, per poi rendersi conto che la passione non basta, o almeno, la passione ha un significato diverso da quello che crede lei, non è fatta di abbracci, di baci, di lunghi discorsi. Per i Masai, ma anche per le altre tribù, ieri come oggi, vuol dire un abbraccio nascosto da tutti, perché altrimenti si pensa male, vuol dire un bacio non dato. Vuol dire mangiare separati, mamme, nuore, figlie, cugine. Maschi, guerrieri, nonni, padri.
Si respira la stessa sete, chilometri per trovare acqua, ieri come oggi, ma si dividono gli affetti, si amplificano le incomprensioni, e non ci si riconosce più. E non è colpa dell'elettricità che manca. Le Corinne di ieri e di oggi pretendono, gli uomini vogliono il silenzio. La tranquillità del pole pole, la carne arrostita alle sette del mattino, i figli da portare sulla spalle, oppure da controllare mentre macinano chilometri di strada per arrivare a scuola con le ciabatte che ad ogni passo vengono perse perché troppo grandi.

Tutti a condividere lo stesso tetto, ma così soli nelle nostre cose. 

Stupido è chi pensa che non sia amore. Le Corinne di tutto il mondo, bianche o kenyote non importa, lasciano il loro tutto, o la loro capanna, per abbracciare questo mondo di polentoni. Ed i polentoni, dai denti bianchi perché masticano foglie di chinino, allargano a loro la loro allargata famiglia, e promettono. Non la fedeltà, ma centottagradi di sè stessi, anche se solo per un poco al giorno, quello sì, metà delle loro corte notti.

"Va bene se il cuore non frulla", per usare una bellissima espressione di Imma Vitelli, giornalista giramondo che dal Corno D'Oro raccontava storie (il suo non frullare inteso come l'aver trovato un uomo sano). Articolo che mi porto sempre dietro nella mia bustina, insieme al brevetto da sub e le foto che voglio con me. Io mi prendo licenza, e dico invece che il cuore frulla, eccome.


Quello di Corinne, il mio in molti casi, quello delle donne che hanno avuto voglia di raccontarmelo. 
Bello sentire frusciare le ali, il singhiozzo che resta lì, quel brivido della fiducia che vuoi riporre in un altro. 

Di qui dall'Equatore frulla, perché la mia pelle e la tua saranno pure diverse, ma i nostri cuori hanno lo stesso colore. Lo possiamo vedere frullare e sanguinare, ripararsi e pronti via, il tuo battito di ali limitato dal perimetro del tuo atollo, dal nome della tua tribù, dall'età sicuramente, a volte dalla tua famiglia. Ma pur sempre con la speranza di trovare chi possa fare vedere la parte migliore di noi.

Philippe Larkin scrive che i giorni sono dove viviamo. Di qui dall'Equatore i giorni sono infiniti, come i granelli della sabbia misurati un piede davanti all'altro. Infiniti come i puntini di questo azzurro, che fa parte dello stesso cielo, del mio, di Corinne, di Llketinga, di questo K., del tuo.

E.

Questo post è dedicato a Biscio, il 2 febbraio sarà il settimo anniversario della sua scomparsa.
Ogni volta che vedo le barrette di cioccolato ripenso a quella volta che eravamo fermi in autogrill di ritorno dall'Università, ti era preso un attacco di fame, hai ordinato un Icaro, e mentre aspettavi il panino mi hai guardata, io ero in lacrime perché un ometto mi aveva appena lasciata con la solita scusa, non mi hai detto niente perché la tua discrezione è sempre stata la parte migliore di te, mi hai comprato i kinder, mi hai detto "Tieni Baudy, fanno buon sangue", io me li sono mangiati tutti fra le lacrime. E' un ricordo scemo e piccolo, ma come tutti i ricordi scemi e piccoli, mi fa sorridere. Ciao Biscio, spero che il tuo viaggio continui ad essere bellissimo.


lunedì 20 gennaio 2014

leggero, nel vestito migliore.


Il sole all'Equatore tramonta in fretta. Ci mette pochi minuti.

Potrei dire quasi che crolla, letteralmente. Un pò come un tuorlo di un uovo che si disfa nell'albume quando li vuoi dividere in un bicchiere. Perde parti di sè, piccoli satelliti di giallo che si separano.

Il sole fa cambiare colore ai paesaggi. Lo stesso scenario, visto senza sole, cambia. Una tenda colorata che ti permette di mettere in scena uno spettacolo uguale, che però ha un finale diverso. Il sole è come l'attaccatura dei capelli sul Kenya. Lo divide in due parti. Diverse, ma non per questo meno interessanti.

L'attaccatura dei capelli a sinistra è l'Ocean Sport, che condivide l'ingresso sterrato con l' Hemingway's, struttura famosa in tutto il mondo per la pesca d'altura.

Entri dentro, e sei in un altro mondo, un altro K.
Circondata da inglesi che bevono birra, rilassati e felici, con in mano un piatto mentre fanno la fila per il brunch a base di curry e sorriso.
Curry di pollo, di pesce, di carne, di verdure (il più buono, neanche in India lo fanno così). Ed un carpaccio di tonno spaziale.

Fuori la spiaggia talcata, leccata dal sole, che certo in una giornata così aiuta a sentirsi meglio, le orecchie si stappano, il cielo tenuto su da un vetro, la crema di papaya che hai comprato si scioglie sul viso, il profumo si espande, entri nel frutto, ti tuffi nel mare, ti incolli la sabbia.

veduta dall' Ocean Sport
Ocean sport part II


Io resto seduta sulla sedia, il mio cervello cammina sulla spiaggia, come ha fatto nella savana, con le infradito in mano, avvista le conchiglie, ruba i colori all' acqua, sposta le alghe con le dita dei piedi.

Mi hanno detto detto beata te che stai in Paradiso. In effetti.

Se però il sole decide di fare di testa sua, il Paradiso diventa grigio. Attaccatura dei capelli a destra.

Lo è di fatto il pomeriggio che spendo al Mida Creek, laguna incastrata nel Parco Marino di Watamu, distante circa 15 minuti dal paese.
La laguna è delimitata da mangrovie, decine, di circa 8 specie diverse sulle 9 esistenti, dalla bianca alla rossa.

Mangrovie
Le mangrovie vivono in acqua salata, addolcita però da quello che rilasciano le radici della Arabuko Forest dietro di loro. A loro volta le mangrovie costituiscono riparo per i pesci che fra le radici depongono le uova, e trattengono il sale necessario a non fare rovinare i coralli che separano la laguna dall'Oceano Indiano, che alimenta con acqua nuova il fenomeno delle maree. Qui sotto, come si presenta il Mida senza acqua, un deserto. Ammazza come sono tecnica.

bassa marea


Passeggiata di circa tre ore con scarpe da mare che fanno tanto fescion, immersa in una paesaggio al limite, come stare su di una porta, e non sapere se mettere un piede fuori o no. Tour a piedi sull' isola verde, giro in canoa, ingresso nel canale per vedere dove stanno gli uccelli, le cicogne, che ti guardano, e pesanti volano via. Volano via come il tempo che scorre indolente, come i tuoi passi sul ponte tibetano, circa 200 metri sospesa a bassa quota tra serpenti legnosi e gusci di paguri infagottati nella sabbia.
Mohamed la guida del Mida Creek


ponte tibetano



Sarà stato il paesaggio al limite, l'ondeggiare del legno, e della canoa, ma le palpebre si sono fatte pesanti, nell'istante in cui le cicogne hanno spiccato il loro rapido volo. Un sorso di relax offerto da questo K., senza donnacce, senza polentoni, solo la natura, diversa dal tripudio di tutto e tanto che mi offre ogni giorno, una forbice che taglia una treccia, i capelli che fanno un'onda appena sotto l'orecchio, ed il deserto si ricopre di acqua. Altro giro altra corsa.

                                                                         
alta marea


Todo Cambia, sostiene Pino Corrias nel suo blog che leggo voracemente quando posso.
Nada cambia, todo mejora, slogan che ho trovato scritto su di un muro a Valencia, e che avevo utilizzato come titolo del mio primo, improvvisato e raffazzonato blog.

L'alta e la bassa marea ogni sei ore, il sole che si attacca ai capelli di questo K., questo possono. Creano cambiamento. E, pole pole, insegnano a non averne paura. Perché, ogni tanto, cambiare fa bene.

                                                       











E.




domenica 12 gennaio 2014

l'eternità è un battito di ciglia

L’altro giorno mi hanno detto che sono besic (scritto così).Forse chi me lo ha detto voleva stupirmi con effetti speciali, ignorando che la lingua inglese mi serve, e per sopravvivere, quindi ne faccio abbondantemente uso.

Tutto di me ho sempre pensato, tranne di essere besic. E per stile di vita, e per modo di pensare, e per ninnoli – bracciali, collanine, orecchini che mi porto sempre dietro, e che continuo a comprare con fame. Questo ti fa riflettere sulla differenza della percezione che si ha di sé, e l’immagine di te che hanno gli altri.

Fortunatamente dovunque vada sono circondata da tanto, e niente di questo tanto è besic, come molti lo intendono.

Le strade sono affollate da alberi di chinino, dalle foglie lunghe come punte di lance, che curano circa 42 malattie, qui credono nella medicina naturale, questo si che è besic, usano un rimedio solo per curarli tutti. 42 come le tribù che lottano per un posto al sole, e litigano e si ammazzano fra di loro, i giriama, pacifici e  polentoni, che vivono la costa, i kikuiu, bellicosi e guerrieri, i masai, regali nelle loro tuniche, dai colli adornati di perline gialle e verdi, il bastone che sembra una zucca, e le infradito fatte di copertone, che si muovono assenti al di sopra degli altri, al di sopra delle altre tribù che considerano besic, loro proprio no. Tutto fuorché.

C’è chi sceglie di vivere con, chi vive senza. Chi senza lo sceglie, chi ci si ritrova. Come il proprietario del Barefoot, caratteristico locale a forma di zampa che sfama chi s’imbatte e batte la spiaggia di Che Chale. S’imbatte non per il mare, francamente ne ho visti di più belli, ma la si sceglie per la sua sabbia. Dorata. Un mix di granelli e pirite, che le conferisce quel tono assolutamente non besic che hanno molte spiagge.
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sabbia di Che Chale

Una distesa di nulla, con sopra il cielo e sotto l’oro. Un tesoro prezioso sia per chi guarda su, ma anche per le onde del mare che giocano fra i tuoi piedi. Fra i tuoi piedi e quelli di pochi altri, uno dei pochi posti in cui le conchiglie sulla sabbia, poche e bianche, superano i visi che incroci, bianchi anch’essi, ma abituati al nero, al nulla.

La strada per arrivare è uno sterrato rovente, dai finestrini si scorgono maniche di camicia di terzo o quarto passaggio che si asciugano il sudore. Si raccoglie il cocco per costruire le case con il guscio, e farne il vino con il succo, usato nei matrimoni, se esageri, non ti alzi più in piedi.

La strada per uscire è un susseguirsi di incroci tutti uguali, di uomini che tagliano il legno, di bambini seduti in mezzo alla polvere, aggrappati alle madri che con il braccio libero ti chiedono un po’ di farina. (pour parler, 24 kg di farina costano 1000 scellini kenyoti, circa 10 euro, ma così, solo per dire).

Molti sono gli scossoni, la maggior parte emotivi, del cuore che frulla, perché pensi a questo fottutissimo mondo di serie B, molti di pancia, perché ti ritrovi lo stomaco in gola, a furia di ballare, sembra di stare sul tagadà, quando sei in cima alla salita vuoi dire “con le mani, su le mani” per sentire meglio la discesa, e quando risali di nuovo chi sta lassù ti spara una boccata di verde, quasi la jeep si ferma, e vedi trecentosessantagradi di Africa, di polmone, di adrenalina, di baobab, di iniezione in vena. Respira. E butta fuori. Il panorama ti si pianta dentro.

dal vetro della jeep

Anche negli dèi si era piantato dentro qualcosa. L’incazzatura nel vedere l’arroganza dei ricchi abitanti di Marafa, dopo un’ora di jeep ma ad una galassia dalla vita, che utilizzavano il latte al posto dell’acqua, sprecando e l’uno e l’altro, mentre i poveri al di fuori crepavano come statue di sale, arsi dal sole e dalla sete. Arsi dall’ira, gli dèi punirono lo sperpero devastando la città di Marafa, che si inaridì di colpo, lasciando che la vita passasse oltre, regalando uno spettacolo emozionale a chi oggi si affaccia su quello che fu ieri.

Canyon di Marafa

io a Marafa

Un Canyon paragonato da molti al Bryce Canyon (Utah, USA), fatto di gole, di pareti di arenaria, di roccia intagliata da cui esce polvere bianca, rossa ed ocra, di bush come la savana insegna. Una passeggiata di circa un’ora , un one way di depressione di circa 73 metri di profondità.

Un luogo che sembra besic ma che come tutti i paesaggi in cui sembra che la vita non ci sia stata, regala testimonianze di una vita che è passata. D’altronde vige la regola che vale per gli esseri umani, ognuno  ha il suo tempo.

La temperatura si sente, il sole cuoce le spalle, bisogna avere scarpe da ginnastica se no si scivola, mentre si ammira il panorama che ti si pianta dentro per la seconda volta. Ai bambini raccontano che dopo il  tramonto del sole questo luogo si trasformi nella cucina del diavolo (non a caso il soprannome è Hell’s Kitchen), e che tutte le notti si sentano rumore di coperchi e pentole, come se il caro Lucifero fosse sempre in mille faccende affaccendato ed avesse un bel numero di commensali- unica presenza animale riportata, i babbuini.

Uscita dal Canyon, mi sono seduta su di una panchina. Mi si è avvicinata una bambina, cranio rasato, mi ha fatto vedere il piede graffiato da non so cosa. Mi ha sorriso. Aveva la canottiera larga, e dentro ci teneva tre quaderni con la copertina colorata per andare a scuola. Ho guardato nello zaino, avanzavo una matita, gliel’ho regalata, lei ha sorriso di nuovo, si è rimessa a guardare il sole, io mi  sono ritrovata a piangere.

Mi sono tolta le scarpe da ginnastica, e sono rimasta con i piedi nella polvere, sulla panchina, da sola, con un tramonto scuro che tremolava davanti a me, con la giornata che finiva, con il rumore delle jeep e l’odore di benzina intorno.
sole che trema

E mi sono sentita fortunata, perché tutto il besic o non besic che mi sta intorno mi sta insegnando che è bello provare a vivere la vita a piedi nudi.


it's time for Kenya, disegnato con i piedi nudi
E.

domenica 5 gennaio 2014

vogliono ballare un pò di più/ vogliono sentir girar la testa


Dicono che fra tutte le donne africane, le più belle siano le somale, e le etiopi. Basta guardare la moglie di David Bowie, Iman. Vero che è una modella. Ma vero anche che rappresenta un tipo, comune per tratti a molte donne che abitano questa parte dell’Equatore.

Il Kenya confina con l’Uganda ad ovest, a nord ovest con il Sudan, a sud con la Tanzania. Il nord e l’ est invece entrano nei confini della bellezza, rispettivamente Etiopia e Somalia, la bellezza delle cose non fragili, tanto per citare e storpiare un magnetico libro di Taye Selasi che ho appena finito di leggere.  Cose non fragili, come le donne keniote.

Prese tutte insieme, mi ricordano le prostitute che litigano sul treno con i controllori, e si rincorrono con gli zatteroni, Charlies Angel’s di qui dall’Equatore, piene di sacchetti, colorate, rumorose, ingombranti, appariscenti. Sono appariscenti come delle paillettes, sfacciate e fasciate in vestiti fluorescenti che fasciano il loro culone, sodo e alto, e chissenefrega se si vedono i buchi. La pelle risalta, il vestito anche, gli uomini strabuzzano gli occhi, le altre donne pensano che queste donne, quelle di qui dall’Equatore, siano delle donnacce.

Anche le donnacce però sognano. Sogni che stanno in una mano, anzi ci stanno pure larghi, vogliono fare le parrucchiere, le rappresentanti, le maestre. Sogni che misurano un metro quadrato, quanto i passi uno in fila all’altro per misurare la grandezza di un atollo. Sogni piccoli sì, limitati no, irrealizzabili, neanche per idea. Sfasciano famiglie, piuttosto.

“Da domani voglio lavorare”- “No, posso provvedere io al tuo mantenimento, non ti preoccupare”- “No, io voglio lavorare, vendere cosmetici porta a porta”- “Quello è un mestiere da donnacce”- “Allora sai che c’è, torna da tua madre con i bambini, io vado a fare la donnaccia”. Fine di un amore.

Per quello vero c’è tempo, oggi tu, domani un altro.

Ma la parrucca no, quella resta, quella non si tradisce. Parrucche fatte con le fibre di agave, di cui è ricoperta la strada che porta a Mombasa, ai piedi delle colline di Vipingo. Ieri avevo i capelli corti e lanuginosi, sembra che sulla mia testa sia stata rovesciata una scatola di bocconcini di cibo per cane. Domani se avrò pazienza mi cresceranno, li stirerò così tanto che sembrerà di aver in testa scope di saggina. Ciuffi dritti, impalati, come foglie di ananas. E domani ancora invece saranno lunghi, con extension di treccine colorate bionde e ramate. Donnacce no, trasformiste anche nella vita di tutti i giorni, you bet.

Sono audaci come cavallette quando ballano, il loro corpo da materia diventa soffio, cacciavite nella testa per le musungu (= bianche), spettacolo per gli occhi che su loro si posano. Donnacce no, quando balliamo, sì decisamente.

Le più piccole, non ancora donnacce, ma in cerca del proprio spazio, impacchettate come sono in stoffe in taglie larghe, sfoggiano vestiti di chissà quale mano, che da noi si vedono solo in certi film americani il giorno del ballo. Stoffe cangianti, fiocchi e gale, trini, merletti, tutte agghindate per stare in strada, tra il fango e la polvere, ad osservare la vita che passa, come confezioni regalo su cui non puoi attaccare il bollino di chi te l’ha venduto.

spiaggia di Sunpalm, e fiocchi



Tutte hanno gli occhi scuri, come quando piove a Nairobi.

Tutte hanno gli occhi liquidi,  come il fiume Galana, che vanno ben oltre i dieci passi del mio atollo, del mio mondo, dell’ippopotamo che di notte si abbevera.

Tutte si muovono. Fanno chilometri per portare l’acqua dal villaggio al pozzo tenendo i boccioni sulla testa, insegnano alle figlie a fare altrettanto, avvolte in tele di stoffa grezza colorata, con motivi floreali, ed una scritta che rappresenta un monito, un insegnamento. Quello stesso telo lo indossa l’uomo dopo la prima notte di nozze, legato alla vita, e lo mostra a tutti mentre si lava i denti, fuori sulla porta, sputando per terra, con la testa bassa ma l’occhio alto per vedere se qualcuno lo vede.

donne al mercato


Si buttano in acqua agghindate come madonne, fanno rumore anche quando tacciono, e guardano l’Oceano di fronte Sunpalm, dopo le cinque.

Sunpalm dopo le cinque



Indossano i loro denti, che forse sono anche di meno in bocca viste le loro dimensioni, e spalancano le persiane. 

donne giriama


Ridono e sorridono, con i loro parei tenuti fermi dal fermaglio in legno, annodati dietro, e tutte le musungu che chiedono loro come si fa per poi replicarlo a Rimini, in Sardegna, e ridere e dire che lo hanno imparato da loro, nell’Africa nera, una piccola toccata e fuga al caldo. Perché io vado e vengo, una settimana, un mese, forse più, ma le donnacce keniote no, loro restano attaccate a questo Kenya come delle cozze allo scoglio.


E.